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Si chiude in gloria, con un danese in giallo, il 109esimo Tour de France. Un Tour straordinario per emozioni e colpi di scena. Un Tour dal quale sarà difficile congedarsi. Come quei film che ci piacerebbe non finissero mai. Sappiamo che siamo all’epilogo, vediamo stagliarsi al tramonto l’Arco di Trionfo, la stordente giostra dei Campi Elisi (con la vittoria allo sprint del belga Jasper Philipsen, già primo a Carcassonne) ma non riusciamo a staccarci per la bellezza delle immagini e per quel senso pieno di sfida sportiva che, anche a Parigi, sembra non esaurirsi mai.
Non c’è retorica, non c’è trucco, non c’è inganno. Anche le lacrime e gli abbracci, a volte un po’ scontati, questa volta sono autentici come autentica è stata la sfida tra il vincitore, il danese Jonas Vingegaard, 25 anni, e il secondo che avrebbe dovuto essere primo, lo sloveno Tadej Pogacar, 23 anni, il baby fenomeno che ha trovato il suo degno rivale, il Re Pescatore, che vince, stravince e convince.
Due rivali fatti l’uno per l’altro
Due rivali, quasi nemici, e quasi amici, che sembrano inventati tavolino: troppi belli, troppo coraggiosi per essere veri. Come l’ultimo allungo di Pogacar a 6 km dalla fine del Tour. Giusto per stupirci, farci divertire fino alla fine. Sono fatti così: una generazione di fenomeni che corrono come surfisti sulle onde. Sempre all’attacco, sempre pronti a inventare qualcosa. Una mutazione genetica. Come se avessero abolito il vecchio ciclismo della fatica, con uno nuova disciplina che non ammette la noia o la prudenza dei vecchi saggi delle due ruote.
Diciamo la verità: tre settimane fa, quando è partito da Copenaghen, il Tour sembrava già scritto, cotto e bollito. Tadej Pogacar, già vincitore delle due precedenti edizioni, quasi metteva la firma anche sulla cronometro d’apertura. Un mostro insaziabile, con quel faccino da bravo ragazzo che nasconde la crudeltà di un serial killer.
Bravo, per carità, perfino troppo se non hai un avversario alla tua altezza. Anche un marziano alla lunga annoia. Ricordate Miguel Indurain? Formidabile, certo. Però che barba, sempre con la maglia gialla, anno dopo anno. E lasciamo perdere la dittatura di Lance Armstrong, fortunatamente finita nella polvere e cancellata per sempre dall’albo della Grande Boucle.